giovedì 10 gennaio 2019

IL PANETTONE DI CARAGLIO

Anche queste sfavillanti feste natalizie sono passate lasciandoci come ricordo doni, comunque graditi, ma anche un poco di colesterolo in più , qualche centimetro di adipe indesiderata che,senza pudore, evidenzia il giro vita e un viso simpaticamente più paffutello.  Il tutto confermato dal verdetto implacabile, sentenziato dalla temuta bilancia.
Tra tutti i cibi che hanno accompagnato questa attesa solennità , il famigerato, burroso, glicemico panettone continua ad esserne il protagonista lasciando residui  che si post pongono ancora per lungo tempo, accompagnando, fino alla nausea, le nostre colazioni . Magari con reimpieghi intelligentemente fantasiosi.
Ma è sempre stato così ?
Una persona profondamente caragliese e a cui sono molto legato,mi ha narrato che un tempo non così lontanissimo, in cui era fanciulla e l’odore ferrigno della guerra si sentiva ancora nell’aria, veniva prodotto e cotto qui da noi, assieme al pane, un particolare panettone.
Tramandato da chissà quando e originale, nel vero senso della parola,  sia per l’arcaicità che per la composizione.
Diverso da  come lo conosciamo noi ora: riccamente grasso ed energetico, iper lievitato ,ornato da zuccherosi e colorati canditi, con attraenti mandorle sgusciate affogate in una crosta “me lassata” che , quando lo si addenta, tutti i parametri metabolici del nostro corpo traballano dallo shock ipercalorico.
Era, quello raccontato,  un arricchimento festoso del pane comune con il suo fragrante e tipico aroma dei grani antichi, deliziato da quello che, di dolce o sfizioso, si aveva in casa o cascina.
E, forse, l’origine del panettone è proprio questa: un pane sfarzoso, grande, importante. Ma, comunque, un pane.
A Caraglio si faceva quindi così, senza una ricetta scritta ma solo tramandata con la parola da madre in figlia.
Ogni anno, all’avvicinarsi del Natale, nel mentre si preparavano le miche (pagnotte) di pane per essere cotte nel forno, se ne prelevava una porzione dalla pasta.
A questa pasta di pane veniva aggiunto del buon burro di casa, delle gustose uova di cortile, miele e zucchero .
Invece degli costosi ed introvabili canditi,venivano incorporati  gherigli di saporite noci o nocciole e, in alcuni casi, pere da cuocere tagliate a dadini.
Il tutto veniva reimpastato , data forma di pagnotta che stentava a gonfiarsi per la poca lievitazione e, la sua superficie, veniva spennellata di rosso d’uovo e cosparsa di zucchero.
Infine cotto in forno con e come il pane.
Il risultato.
Un ottimo dolce. Delicato, leggero,sincero . Amante del calore familiare e della compagnia di una buona bevanda calda (latte, the) :scardinatori dei  suoi profumi.
In questo periodo natalizio appena trascorso, la conosciuta ed apprezzata panetteria-pasticceria Milone di Caraglio, sempre molto attiva nella valorizzazione e promozione delle tipicità di questa terra ricca di buone cose,  ha condotto prove di produzione del sopra detto storico panettone caragliese riuscendo dopo vari tentativi, seguendo le sole indicazioni orali tramandate, a rievocare il dimenticato dolce della tradizione locale contadina.
Dolce che è stato riconosciuto come il panettone che si faceva a Caraglio.
Purtroppo le prove si sono forzatamente dilungate superando il tempo di questo Natale, posticipando, di conseguenza, la sua presentazione ufficiale per il prossimo anno.
Tuttavia, anche per aver un utile giudizio da parte dei consumatori, il panettone sarà comunque prodotto e disponibile già in tempi brevi, presso la suddetta panetteria.
Lucio Alciati

venerdì 28 dicembre 2018

IL TOMINO DI CARAGLIO

Questa è la storia del Tomino di Caraglio .
Ho vissuto la prima infanzia, negli anni ’60 inizio ’70, in uno storico bar di Caraglio.
Anzi, in origine, era una trattoria chiamata Croce Bianca, poi in quegli anni, per la locazione un poco affossata di una sua saletta, molto frequentata dalla gioventù caragliese, venne dagli stessi soprannominata bar “La Tampa” (la fossa). Denominazione che mantiene tutt’oggi  un pimpante locale vicino.
La sala superiore, a livello stradale, era invece frequentata, per la maggior parte, da uomini già un pochino più maturi, accompagnati dall’inseparabile quartino
Negli anni ’60, a Caraglio, vita scorreva con i suoi ritmi lenti, il mercato era molto florido perché la valle era ancora ben popolata: la contrattazione delle castagne avveniva sotto il pelerin e il mercato della verdura (fagioli e peperoni) si svolgeva nella piazza S.Paolo, dove vi  era anche la vivace la Società Operaia .
Questa memorabile Società era luogo di svago per una buona parte di paesani: lì si poteva mangiare, bere, giocare a carte o a bocce, discutere dei fatti e misfatti e della politica, specialmente, locale.
In quegli già documentati anni, proprio in questo locale ma anche presso il nostro bar, un simpatico e arguto avventore caragliese di nome Edoardo “Nardo”  (e non è un nome inventato) narrava ed esaltava le qualità e la peculiare  bontà di un tomino da lui prodotto tutte le mattine, per colazione.

La procedura di produzione, semplice ma rigorosa tanto che potrebbe benissimo essere considerata un vero disciplinare, esaltava il gusto del latte rendendolo particolarmente amabile.
Le sue origini non sono note e, per quel che so, non ha eguali in altre zone.
E’ simile al Reblec valdostano ma con criteri di realizzazione singolari , per tempi e tecnica.
E questi modi ne fanno buona differenza per sapore e consistenza.
In quel periodo in  molti, specialmente massaie, producevano quel tipo di tomino, anche sotto forma di piccole tome.
Poi le piccole stalle paesane, dove era possibile comprare direttamente anche solo pochi litri di fresco latte, scomparvero e con essi scomparve anche l’abitudine di fare quei tomini o la toma casalinga.
Ma la ricerca, certe volte la casualità  e specialmente  l’affiorare spontaneo del ricordo nella mente degli  ormai pochi veterani nella narrazione  della loro vita passata, porta sempre i suoi frutti.
E così è anche stato per il tomino di Caraglio.
Ora, in occasione della nota fiera tipica di Aj a Caraj del 18 novembre , grazie alla disponibilità di Marco Odetti, bravo e preciso casaro, titolare  dell’Azienda Agricola “ il sogno” di Borgo S.Giuseppe di Cuneo, sono stati proposti i suddetti Tomini fatti con la  storica ricetta caragliese di Edoardo (Nardo).
Giudicate voi.
LAlciati


giovedì 2 aprile 2015

WORKSHOP SULLA PATATA IN VALLE GRANA: INCONTRO FORMATIVO


L’associazione di tutela, valorizzazione e promozione dell’antica Patata Piatlina e della Patata Ciarda delle Valli Occitane organizza, il 07.04.2015 (ore 20.30), presso l’Agriturismo La Braida in Via Levata a Monterosso Grana, un incontro formativo sul tema della pataticoltura di qualità come possibile fonte di reddito per le piccole e medie aziende familiari montane e pedemontane, nel rispetto delle tradizioni e dell’ambiente.
Il conosciuto ed esperto agronomo Ezio Giraudo illustrerà l’esempio virtuoso del Consorzio della patata Bianca di Esino, una vallata della provincia di Lecco in Lombardia. che ha tecnicamente seguito fin dalla nascita.
La partecipazione è libera a tutti: agricoltori, tecnici,ristoratori,cultori del buono,  addetti al commercio e appassionati della terra.

lunedì 16 marzo 2015

PRESENTAZIONE PUBBLICA DEL CONSORZIO di PROMOZIONE, TUTELA e VALORIZZAZIONE del Söfran Zafferano di Caraglio e della Valle Grana



PRESENTAZIONE PUBBLICA DEL
CONSORZIO di PROMOZIONE, TUTELA e VALORIZZAZIONE

del


Söfran
Zafferano di Caraglio e della Valle Grana
  

Venerdì 27 marzo 2015
ore 21

Presso la Sala Riunioni del Comune di Caraglio
(entrata cortile interno – lato Cinema Ferrini)





Per informazioni: 345.93.33.591

domenica 7 settembre 2014

CASTELMAGNO FEST: L’ASSOCIAZIONE PER LA PROMOZIONE, VALORIZZAZIONE, TUTELA DELLA PATATA PIATLINA E CIARDA DELLE VALLI OCCITANI, C’E’.

L’associazione per la promozione, valorizzazione, tutela della patata Piatlina e Ciarda delle Valli Occitane, che ha sede a Monterosso Grana, parteciperà con orgoglio all’importante manifestazione Castelmagno Fest che si terrà il 13-14 settembre prossimo.
Sarà presente come stand e, innanzitutto, avrà la gentile collaborazione  dell’attivissima Associazione Albergatori e Ristoratori della Valle Grana i quali  proporranno, nei menù previsti per l’evento suddetto, i gnocchi prodotti con la tradizionale patata Ciarda (rossa) coltivata in Valle, naturalmente conditi con l'ottimo nostro Castelmagno. Una collaborazione molto importante per la valorizzazione, la promozione e lo sviluppo della pataticoltura tradizionale e di qualità delle nostri valli d’Oc.
Per info: www.castelmagnofest.it-www.piatlinaeciarda.com


lunedì 31 marzo 2014

VALLE GRANA: VALLE DEL GRANO

L’etimo, il significato del suo nome, ha probabili origini medioevali allor quando i monaci benedettini stanziati nell’antico priorato  di S.Maria della Valle, nel riportare il credo cristiano dopo le terribili scorribande saracene, iniziarono una importante bonifica del territorio circostante, divenuto, per l’abbandono, fitta roncaglia.
Le terre diedero soddisfazione nella produzione di superbo grano, tanto da proferirgli l’importante nome.  Quel grano non inteso solo come frumento, in quel periodo di primaria importanza, ma anche di segale, avena,orzo, spelta,miglio,farro, sorgo. Cioè di granaglie.
Immaginate una biondeggiante distesa, un manto dorato che copriva l’intero territorio come un luminoso mare baciato da un caldo sole.
La bassa e media valle, da Caraglio  fin verso Monterosso, tranne la zona Palazzasso e le Paschere, perché le prima coperta da una fitta foresta che si estendeva sino a Busca e le seconde sedi di pascoli e gerbidi, divenne un vero e proprio granaio che, probabilmente,  forniva, per mezzo dei suoi numerosi molini, le ricercatissime farine   all’intero Marchesato .
Farine che dovevano essere di ottima qualità, adatte  per profumati pani e per sostanziose polente.
Già perché il termine polenta nasce molto prima dell’arrivo del mais nelle nostre zone. Si produceva con il miglio,il sorgo, l’orzo o tutti i cereali misti fra di loro.
Ma qual’erano le varietà coltivate?
Il miglio, il sorgo, la segale, l’orzo, l’avena, lo spelta non erano identificati con nomi precisi, forse perché reputati cereali minori di qualità.
Al contrario i frumenti antichi erano già catalogati con dei nomi che li contraddistinguevano e venivano dati, prevalentemente, in ragione delle loro caratteristiche fisiche (rosso,bianco, grosso ecc).
E in Valle Grana?
Nella nostra valle abbiamo la fortuna di riscontrare  antiche pitture, come fotografie del passato, che ritraggono, anche se poco nitidamente, questi cereali.
E’ il caso dell’antico stemma del comune di Valgrana, peraltro chiamato così in quanto fulcro e capitale di questa vallata, dipinto sulla facciata della bellissima cappella di S.Bernardo, sita lungo la via che va a Montemale.
E’ il più antico, che io sappia, riferimento e prova di un florido passato cerealicolo della nostra piccola valle dove già la sua conformazione, incredibilmente, ricorda la spiga.
Ebbene questa immagine che ci giunge  dal lontano 1400 raffigura tre spighe riunite che, guardando bene,  potrebbero indicare tre diverse granaglie, allora coltivate. A sinistra  si può scorgere una  spiga con tracce di reste, tipiche della segale o di tutti i cereali restati al centro campeggia una spiga a ferro di lancia che, anche per i colori,  ricorda il sorgo, a destra spicca una spiga senza reste, peculiarità  di un tipo di grano ampiamente coltivato nel medioevo chiamato calbigio (calvo). Quindi questo, presumibilmente,  era il frumento coltivato in antichità nella Valle Grana, comunque molto diffuso, in quell’epoca, in tutt’Italia.
In Lombardia lo chiamavano Tosello, in Toscana Calvello, nel sud Carusello e in Piemonte Bertone, proprio per l’assenza delle reste o peli sulla spiga.
Era di taglia eretta e robusta e  produceva un’ottima farina, bianchissima e povera di glutine.
Si estinse dai nostri luoghi  forse a causa del repentino abbassamento delle temperature, causato dalla storica piccola era glaciale che, in passato,  investi l’Europa e culminò nelle formidabili  e memorabili gelate del periodo 1700-1850.
Infatti, in quel periodo, in valle Grana,  si sviluppò enormemente la coltivazione della segale a scapito di altri cereali, perché più resistente al freddo. In alcuni casi veniva  mischiato al frumento invernale, sperando in annate più miti affinché  si potesse ottenere una farina, chiamata Barbariato, (imbastardito), per pani più digeribili.
Tuttavia queste tecniche, assieme all’affannoso  mescolamento con altre varietà restate,  provocarono una rapida degenerazione del Calbigia. Esso  acquisiva le reste e perdeva vigoria e qualità, per cui si perse nel calderone varietale fino ad estinguersi.
Ma non del tutto. Infatti dopo alcune fortunate  ricerche sono venuto a conoscenza che tale grano tenero è ancora coltivato, in produzioni ridottissime, in un’enclave della Basilicata.
E’ molto facile che tale frumento sia sopravvissuto in quelle zone perché esse non subirono i lunghi e gelidi inverni che avevano flagellato e condizionato l’agricoltura del Nord e Centro Italia.
Ancor di più il destino ha voluto che proprio nel corso delle mie ricerche, l’amico Domenico Lofrano, mio vicino di casa e originario di quelle terre,  si trovasse la e, non senza fatica, riuscisse a trovare il seme del calbigia perduto, riportandolo nella nostra Valle.
Verrà seminato in autunno e, il prossimo anno, se Dio vorrà, potremo verificare se la sua proverbiale qualità sarà mantenuta anche dalle nostre terre.
Infine una curiosità collegata all’antica tradizione cerealicola e panificatrice della Valle Grana.
Esiste una novella, scritta sul libro “La Valle Grana nei secoli” dell’autore sac. dott. Ristorto Maurizio, edito da   tip. Lit. Ghibaudo,  dove  compaiono i nomi di due antichi pani tipici locali che potrebbero essere riproposti e rivalutati. La leggenda racconta che un “ pastorello, partendo con il suo gregge per il pascolo, riceve da sua madre due pani: lu Kulumbet, un pane (bianchissimo) rotondo per suo cibo, e lu Raviolet, un pane oblungo (fatto di Barbariato) per il cane “Burel”. Ma l’ingordo ragazzo mangia i due pani, lasciando senza cibo il fido compagno.
Alla sera, verso l’imbrunire, si avvicina il lupo e il pastorelle chiede l’aiuto al cane che gli risponde:
As mingià lu kulumbet e lu raviolet, uro parte tu dal lubet.
“Hai mangiato tutto il pane, ora difenditi tu dal lupo”.
In conclusione è strano che certe volte si ricerchino tipicità locali con laboriose e lunghe ricerche scritte e orali e non ci si accorga, in alcuni,  che già il nome del luogo dia precisa informazione delle sue peculiarità.
Si dice che “Il punto più oscuro è al piede della candela.” Forse è proprio così.

Lucio Alciati


venerdì 12 luglio 2013

Cuchèt: i sensuali biscotti tipici di Caraglio

Un’anziana contadina , dallo sguardo solare come una tiepida giornata primaverile, un giorno, nel piacevole discorrere delle antiche consuetudini agresti, mi ha narrato una novella dal sapore quasi fiabesco, legata al nostro territorio e alle nostre tradizioni.
Mi ricordo che, nel raccontarla, i suoi occhi ancora freschi e cristallini, brillavano di emozione e contraddicevano le profonde rughe del volto che parevano solchi arati di un campo stanco della stagione passata.
Pressappoco la storia inizia così:
"Un tempo molto lontano in una piccola cascina spersa nella pianura caragliese viveva una minuta ragazzina con la sua matrigna e come tutte le favole di questo Mondo, la matrigna era dispotica e senza cuore.
Abitavano sole e conducevano, non senza fatica, quella piccola fattoria composta da due floride mucche, un grasso porcello, un vecchio asino, alcune ruspanti galline accompagnate da un irascibile gallo e pochi, sfuggevoli, conigli. Più in là, in posizione assolata, tre rustici alveari erano avvolti da ronzanti e operose api e in un capanno vicino, specialmente verso sera, si udiva il brucare vorace dei bachi da seta. Il tutto era controllato da un arruffato cane di razza sconosciuta, guardingo e sospettoso.
Dietro la cascina si estendeva un fazzoletto di terra che era per metà coltivato a mais, cereali, ortaggi, qualche melo Gamba Fina e qualche pero Bure Roca e per l’altra metà adibito a pascolo.
In quel pascolo spiccavano, maestosi, dei gelsi dalla fronda rada come il capo di uomo anziano. Era una condizione dovuta dalla continua raccolta delle foglie, da parte dell’agile ragazzina incalzata dalla tirannica matrigna, indispensabili nell’alimentazione dei famelici "bruchi setaioli" del loro piccolo allevamento."
Un tipo di allevamento molto diffuso nel nostro areale, in quella lontana epoca, e di grande importanza per la parca economia contadina. I bozzoli prodotti dai bachi, chiamati localmente "cuchèt, venivano proficuamente venduti a mediatori o commercianti di passaggio o, più frequentemente, nelle fiere e nei mercati.
Una di queste si teneva a Caraglio ed era a frequentatissima, sicuramente la più importante.
Ed è proprio tale atteso appuntamento che fu causa, quella volta, di questo singolare fatto.
" Era luglio e si avvicinava il giorno della vendita dei bozzoli di seta alla Fiera della Madonna del Castello di Caraglio ma, due giorni prima dell’agognato evento, l’acida matrigna venne avvertita, da certi parenti di Torino, della scomparsa di una sua vecchia sorella e che il funerale si sarebbe svolto proprio il pomeriggio del giorno antecedente la fiera. Il viaggio, allora, era lungo e difficoltoso e non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo per preparare i cuchèt per la fiera. Tuttavia sarebbe arrivata nella notte della vigilia della manifestazione e avrebbe potuto presenziare e commercializzare il prodotto in quel giorno fondamentale.
Incaricò quindi, con veemenza condita da qualche sibillina minaccia, la brava ragazzina di occuparsi della raccolta e preparazione dei bozzoli in modo che, al suo arrivo, fossero pronti per il mercato.
La vispa ragazzina, quasi incredula e felicissima di sfuggire per un poco di tempo dall’asfissiante morsa della sua noiosissima matrigna, attese che la nera figura femminile sparì all’orizzonte, poi emise un gran sospiro di sollievo.
Le ore passavano liete e finalmente, dopo lo svolgimento dei lavori che le attendevano, poteva giocare e fantasticare com’era normale per la sua giovanissima età, dimenticandosi, però, completamente dei bozzoli.
Il tempo, senza accorgersene scorreva, scivolava velocemente e il momento del ritorno della vecchia arpia si avvicinava inesorabilmente.
Finché, verso sera, accadde che il cane,scorgendo una volpe gironzolare nei pressi del capanno, si mise ad abbaiare rabbiosamente. La ragazzina svelta, scattò verso l’edificio, entrò e nel vedere i bozzoli ancora da raccogliere si ricordò, con un fremito di paura, della fiera e della matrigna.
Incominciò freneticamente a raccogliere i bozzoli e a disporli nella cesta. Ma, a causa della fretta, nel tragitto verso casa inciampò e , nel cadere, una parte dei bozzoli finì nel ruscello pieno d’acqua. In un batter d’occhio quei cuchét sparirono tra i rapidi flutti.
Ohibò come fare?
Pensa e ripensa l’intelligente fanciulla, tra i pensieri nefasti su cosa poteva succedergli quando la matrigna fosse tornata, gli venne un’idea: magari balzana,forse audace però possibile.
Doveva fabbricare dei bozzoli falsi che ingannassero la vecchia dispotica. Inoltre la megera non aveva la vista buona, non se ne sarebbe accorta.
Prese della farina di mais, che era gialla come i bozzoli e la setacciò.
Aggiunse dei tuorli di uova raccolte dalle galline ormai rintanate nel pollaio per creare l’impasto: se la matrigna si fosse accorta della loro mancanza poteva dare la colpa al rubalizio di una fantomatica volpe.
Però non bastava, l’impasto si disfaceva.
Aggiunse, quindi del miele che aveva nascosto durante la smielatura dei favi.
L’impasto cominciava ad essere consistente ma non era ancora modellabile.
Ci vuole del burro, pensò. Il burro è un buon legante però ce n’era poco e la matrigna si sarebbe accorta… .
Allora munse un poco di latte per mucca, lo versò in un’albarella di vetro e cominciò a sbatterlo finché diventò burro. Il siero avanzato lo avrebbe messo assieme al latte della prossima mungitura così la megera non si sarebbe accorta di niente.
Aggiunse il burro ed ecco che l’impasto diventò lavorabile.
Con quella pasta modellò, sul palmo della mano, dei cuchèt però erano fragili e si sfaldavano. Che fare?
Altro lampo d’ingegno; bisognava cuocerli.
Accese il piccolo forno del pane e lo scaldò ad una temperatura moderata. Non doveva bruciarli o provocare dorature eccessive. Dovevano rimanere gialli come il sole, come i bozzoli veri.Tuttavia i cuchèt non erano solo gialli ma anche bianchi, quindi, con lo stesso procedimento, sostituendo la farina di mais con farina di frumento, ne preparò altri.
Li lasciò cuocere lentamente, li lasciò raffreddare e quelli bianchi, per renderli più candidi e simili ai veri, li passò ancora nella farina di frumento. Infine li mischiò con gli altri cuchèt ben disposti nel cesto, pronti per la vendita.
La matrigna arrivò, stanca, a notte fonda. Lanciò uno sguardo assonnato alla ragazza e ai bozzoli.Non si accorse di niente e se ne andò, brontolando come il suo solito, a dormire.
Il mattino dopo,al canto dell’irascibile e stonato gallo, la vecchia e la bambina si svegliarono già agitate e dopo aver assolto le faccende della fattoria si avviarono alla Fiera di Caraglio, con il prezioso fardello pronto per essere venduto.
La giornata era meravigliosamente serena e il caldo era reso sopportabile da un leggero e piacevole alito di vento.
Già molta gente, vociante e curiosa, affluiva verso la via centrale del paese, tra tante bancarelle e divertimenti, al che la matrigna, a quella vista, squittendo come un topolino pregustava, felice, un buon guadagno.
E in quell’eccitazione espose per bene la sua merce, sempre e comunque rimbrottando la povera fanciulla.
Tutto procedeva al meglio, la matrigna non si era accorta dei cuchèt fasulli. Era quasi fatta.
Ma ecco che, nel momento migliore, a riprova del detto : il "diavolo fa le pentole ma non il coperchio" disgraziatamente si avvicina, alla cesta dei bozzoli, un cane randagio. Questo ne infila il suo umido naso, annusa e addenta un cuchèt e se lo mangia con gusto.
Apriti cielo, la matrigna sbigottita strabuzza gli occhi e capisce al volo che qualcosa non va. Controlla i bozzoli e scopre quelli falsi. Molto simili ma falsi.
Volano urla, strepiti, insulti all’insegna della spaventatissima fanciulla raggomitolata su se stessa in un angolino della piazza.
All’udire quel gran baccano accorse una moltitudine di visitatori e, tra questi, un distinto signore il quale aveva assistito da poco lontano alla drammatica scena. Incuriosito, si chinò sulla cesta dei bozzoli ormai sparsi per terra, afferrò un cuchèt incriminato e lo assaggiò, rimanendo sbalordito dal gusto così buono.
In quel momento, il galantuomo, si accorse che la matrigna, impazzita dalla rabbia, stava levando il braccio verso la sempre più terrorizzata ragazza e la bloccò con decisione e sveltezza.
Si rivolse, con sguardo pacato, alla fanciulla e le propose di assumerla come persona di servizio per la sua grande e nobile casa di Torino. In cambio, però, desiderava che lei continuasse a preparagli quei deliziosi biscotti gialli e bianchi: i Cuchèt di Caraglio.
Lei accettò e da quel dì visse felice e contenta.
La matrigna invece rimase sola con la disperazione di una tetra emarginazione, piena di paure e rimorsi, rimpiangendo il tesoro perduto.
Lucio Alciati